Tonino Guzzo: "Pane quotidiano, hobby e passione per la vigna"

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di Francesca Landolina
Torniamo a parlare della Sicilia del vino. Stavolta con Tonino Guzzo, enologo siciliano tra i più conosciuti ed apprezzati nel panorama nazionale, consulente di diverse cantine in differenti zone vinicole dell’isola e grande sostenitore del Catarratto. Cominciamo da ciò che muove tutte le cose: la passione per il vino.

Cos’è per lei il vino?
Pane quotidiano, hobby e passione per la vigna.

Come nasce in generale la passione per il vino?
La passione nasce quando ti capita di incontrare le persone che te la trasmettono, che te la infondono. Io ero un ragazzino, un quattordicenne quando iniziai i miei studi, lasciando la Sicilia e i miei genitori per frequentare l’istituto tecnico agrario di Alba, in Piemonte. Immaginate, a quei tempi, cosa significasse tutto ciò. Sapevo di essere un privilegiato, tra i primissimi siciliani ad andare a studiare fuori per diventare ciò che sono oggi, ma non avevo piena coscienza di quel che stavo facendo. Era una roba impegnativa, insomma. Ricordo quando mio padre mi lasciò alla fermata e mi disse che ci saremmo sentiti la settimana successiva. Mi cadde il mondo addosso. Mi sentivo scoraggiato, Chiamai casa, dopo pochi giorni, e sempre mio padre mi disse: “Tu l’hai scelto e tu ci rimani. Vedi di riuscirci”. Quando hai la passione, i momenti difficili passano. Subito dopo è spuntato il sole. Quel mondo era parte di me, tutta la mia vita. E ho iniziato a fare strada. Poi ho avuto la fortuna, giovanissimo, di incontrare grandi nomi del vino siciliano, i primi veri illuminati, come Diego Planeta, il Conte Lucio Tasca, Ignazio Miceli. Tutte persone carismatiche, capaci di grandi visioni e motivate a cambiare la storia del vino di Sicilia. In quegli anni, lavorando per stimolanti realtà vinicole, ho imparato tanto, dalla gestione analitica a quella di cantina e della vigna, facendo un percorso inverso che mi ha permesso di comprendere cosa servisse per fare un grande vino con le uve giuste e nei contesti giusti. Dopo, a quarant’anni, ho deciso di fare il consulente, perché ad un certo punto servono nuovi stimoli per ravvivare la passione e continuare a crescere.

Secondo il suo punto di vista, che periodo vive il mondo del vino siciliano?
Penso che siamo davanti ad una stasi. Osservo i giovani che studiano per diventare enologi, e mi chiedo che tipo di esperienze stiano facendo. Io sono stato fortunato, perché ho avuto la fortuna di cominciare le mie esperienze professionali all’interno di aziende illuminate a quei tempi, che investivano sui giovani, e così ho girato tanto e ho avuto la possibilità di conoscere altri territori del vino, di bere grandi vini da tutto il mondo. Quando nacque l’unico “Chardonnay muffato” siciliano della storia, Regaleali Botrytis Cinerea 1991, l’energia ricca di stimoli e senza pregiudizi che si respirava era altissima. Grandi vini nascevano da tantissimi confronti. Che accada questo oggi è più difficile.

Cosa servirebbe per una nuova rinascita?
Serva una visione. Andare oltre la punta del proprio naso. Oggi non si sta aggiungendo nulla di nuovo. Il brand Sicilia è fortissimo, il Consorzio ha fatto un grande lavoro per un’isola che in ogni parte del mondo è conosciuta, per la sua storia e per la sua posizione al centro del Mediterraneo. Adesso, tuttavia, è il momento di fare anche altro. C’è l’Etna che fa parlare molto di sé stessa ma per il 90 per cento la Sicilia è altro. È il momento che vengano fuori i territori.

A proposito di Etna, lei cosa pensa di quel territorio?
Trent’anni fa mi chiedevo come mai quel posto non venisse valorizzato. La Borgogna è il tempio sacro del vino, ma quanto a bellezza non ha nulla a che vedere con l’Etna. Il vulcano è un grande territorio.

Di recente si sta vinificando spesso il Nerello Mascalese fuori dall’Etna. Qual è il suo parere?
Si tratta di un’ottima varietà per i rossi. Si presta alla contemporaneità del bere per rossi meno robusti e più scarichi di colore. In realtà è stato sempre coltivato ovunque; in purezza si esprime bene e lo dimostra. Sull’Etna, tuttavia, si dona al meglio.

Parliamo di altri rossi siciliani. Qual è il trend?
Il modo di fare rossi sta cambiando, perché il gusto del bere cambia. Oggi si vogliono vini leggeri, con gradazioni alcoliche più basse, con pochi muscoli e maggiore eleganza.

Quali sono i requisiti più importanti per fare un grande Nero d’Avola?
Scegliere la zona giusta. Le più vocate sono quelle dell’agrigentino e del nisseno, secondo il mio parere, per uno standard più elevato delle vigne, in generale, e per i terreni di trubi, gessi e basi calcaree.

Lei ha sempre creduto nel Catarratto e il tempo le ha dato ragione…
Penso che un bianco da Catarratto sia un vino straordinario, perché ha tutte le potenzialità per esserlo. Il Catarratto è una grande uva, spesso non capita, ma con la giusta attenzione dà tanto. E regala anche longevità. Di recente, con un’azienda che seguo, stiamo rimettendo in commercio un Catarratto del 2008. Lo abbiamo assaggiato: ha le caratteristiche di un grande bianco di 16 anni maturato in bottiglia. Sono solo 1.000 bottiglie. Questo dimostra tante cose. Può essere strepitoso da giovane, perché tiolico e ricorda i frutti che si trovano nel Sauvignon Blanc, il pompelmo, le erbe aromatiche. Poi evolve nel tempo come un Riesling ed esprime note di pietra focaia e idrocarburi.

E il Grillo può dare vini longevi?
Non tutti sono d’accordo… Certo che sì. Il lavoro si fa in vigna, un vino va pensato in vigna, riuscendo a capire la terra pezzo per pezzo, e individuando le microzone più vocate. Se si è in grado di fare questo, allora sì nascono grandi vini da Grillo. È anche più tiolico del Catarratto e questo significa che ha profumi intensi di pompelmo, menta, frutto della passione, pera e fichi freschi. Bisognerebbe assaggiare gli acini per riconoscerne il gusto. Ed è longevo per chi sa trattarlo. L’importante è conservare bene i vini. Lo raccomando sempre.

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